IL LUTHER BLISSETT PROJECT A ROMA. 1995-1999 | PRISMO


PRISMO / www.prismomag.com / 26.07.2016

Ricordando Luther Blissett, 1994-1999 by Valerio Mattioli

 

Intervista al più famigerato multiple name della controcultura italiana. O almeno, a una delle sue “ex personalità”.

Sono passati quasi vent’anni ed è probabile che oggi, nel 2016, il nome Luther Blissett dica poco al pubblico generalista; anzi ho come il sospetto che i più lo associno ormai al collettivo a cui si deve il romanzo Q uscito per Einaudi Stile Libero nel lontano 1999: insomma, allo stesso gruppo di scrittori che poi sarebbe diventato noto come Wu Ming. E in effetti i Wu Ming furono Luther Blissett, così come Luther Blissett furono decine (centinaia? Migliaia? Chi lo sa…) di attivisti sparsi per l’Italia e oltre, tutti celati dietro l’enigmatico volto del più inafferrabile multiple name della controcultura anni ’90.

Chiunque poteva diventare Luther Blissett: Wikipedia (perdonatemi se ricorro a mezzucci tanto facili) lo descrive come “uno pseudonimo collettivo utilizzato da un numero imprecisato di performer, artisti, riviste underground operatori del virtuale e collettivi di squatter negli anni Novanta”. Non era insomma un individuo ma un condividuo abitato da diverse personalità, che sotto tale sigla firmarono – oltre che romanzi – beffe mediatiche, attacchi psichici, derive psicogeografiche, nonché diversi opuscoli e pamphlet assai discussi non solo negli ambienti del pensiero radicale, ma anche da giornali e media “ufficiali” (che al fenomeno riservarono trattazioni tipicamente goffe quando non apertamente tragicomiche).

Il Luther Blissett Project (LBP) anticipava anche di diversi anni alcuni temi – segretezza, identità, anonimato, cultura del controllo – all’ordine del giorno nell’odierno dibattito sia politico che tecnologico, ammesso che tra i due esista più alcuna differenza. Ogni tanto c’è persino chi ancora oggi resuscita la sigla per azioni solo vagamente memori dei bei tempi andati (si pensi alla bufala sui voli Ryanair gratuiti per i richiedenti asilo), ma di fatto la sua esperienza si concluse nel 1999 del già citato Q, tappa finale di un “piano quinquennale” conclusosi con un simbolico seppuku.

Di recente, a far di nuovo parlare di Luther Blissett ci hanno pensato due libri: il bel Improper Names di Marco Deseriis, uscito lo scorso anno per Minnesota University Press (e ancora inedito in italiano) ne lega la parabola sia a precedenti storici già in passato analizzati (Ned Ludd) sia all’attuale fenomeno Anonymous, di cui in qualche modo il LBP fu – con tutte le differenze del caso – un predecessore. A inizio 2016 è invece uscita un’interessante raccolta intitolata Il Luther Blissett Project a Roma, 1995-1999, il cui titolo dovrebbe bastare da solo a svelarne il contenuto. Roma in effetti fu la città che, assieme a Bologna, più familiarizzò con lo sfuggente multiple name, le cui azioni imperversarono per qualche anno in quel ramificatissimo network che metteva assieme centri sociali (o almeno alcuni di questi: vedi oltre), università (in particolar modo la facoltà di sociologia della Sapienza), rave parties, musica techno, ed emittenti radiofoniche “di movimento” (ai tempi, la storica Radio Città Futura poteva ancora dirsi tale. Più o meno, diciamo).

Ho quindi colto l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con… be’, con Luther Blissett, che domande. O almeno con una delle sue ex personalità romane, tra le curatrici del libro di cui sopra. Ecco il risultato.

Prismo: In quale contesto prende forma il Luther Blissett Project? Nel senso, immagino si debba partire dalle solite cose: Bologna, gli anni ’90, i centri sociali, il revival situazionista (c’era davvero?)…

Luther Blissett: Innanzitutto occorre de-bolognesizzare il Luther Blissett Project, e questo l’ho affermato mille e mille volte già negli anni ‘90. Certo, nel 1999 è uscito il romanzo Q, scritto da quattro mie ex personalità bolognesi e forse non sono mai stato così celebre come ai tempi di quel libro; tuttavia è ora di farla finita con la storia “Bologna, gli anni ’90”, etc. Se si volesse tentare una storicizzazione riduttiva, il LBP è un’iniziativa che si è generata da una sinergia tra ambienti Mail Art, personaggi provenienti dal Great Complotto di Pordenone come Piermario Ciani, i “Liberi Cittadini Transmaniaci” di Bologna e l’area della Neoist Alliance di Stewart Home a Londra. Ma le cose sono comunque più complesse, altrimenti non si spiegherebbe la diffusione tracimante del mio nome.

Occorre quindi fare alcuni passi indietro, tornare al 1990 e al movimento della Pantera, quando si formò la rete dei seminari autogestiti di molte università italiane: il Réseau, un’esperienza costituente di cui ancora nessuno ha scritto. Il Réseau produsse saperi autoprodotti a cui non si accedeva attraverso gli studi accademici dell’epoca: era una sorta di “invisible college” che riscopriva tutta una serie di correnti carsiche dimenticate. La rete dei seminari autogestiti fu il primo bacino di cooperazione sociale che raccolse l’idea del multiple name, lanciata “ufficialmente” dai bolognesi. Qui però parlerò esclusivamente della mia esperienza romana.

Vai.

A Roma ci furono due centri sociali che ebbero un ruolo di primo piano per il LBP: il Forte Prenestino a Centocelle, e l’Auro e Marco a Spinaceto. Funzionavano come luoghi d’incontro, discussione, formazione e organizzazione: al Forte perché c’era AvANa BBS [uno dei punti di riferimento della comunità hacker italiana, ndr] alla cui realizzazione avevano partecipato alcune mie ex personalità; all’Auro e Marco perché c’era un sodalizio militante basato sulla ricerca (per esempio sull’operaismo) e dell’attivismo più ragionato (per esempio sul reddito di cittadinanza universale).

Il “revival situazionista” c’era eccome, specie nelle università e nell’industria culturale italiana. Tuttavia nel momento in cui istituzioni e simili recuperavano l’ideologia situazionista – perché di un’ideologia come un’altra si trattava – io esordii rifiutandola. Lo feci raccontando la storia rimossa dell’Internazionale Situazionista, raccontando l’autoritarismo di “Guy The Bore” [cioè Guy Debord, ndr] e le rotture con attivisti validissimi che avevano la sola colpa di non essersi sufficientemente allineati alle sue idee di grandezza, spiegando come la concezione dello spettacolo e del recupero fosse ormai obsoleta.

C’è anche da dire che con questa discontinuità forse ho esagerato: le mie ex personalità si sono tutte formate con i situazionisti e anzi, alcune di queste non abbandonarono mai quelle categorie. In effetti realtà come il Comitato Psicogeografico di Londra di Ralph Rumney (tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista), la Seconda Internazionale Situazionista di Jørgen Nash, Asger Jorn e la sua teoria trialettica, la sezione londinese KING MOB, alcuni agitatori culturali inglesi che negli anni ’80 hanno raccolto l’eredità di KING MOB come Tom Vague, erano forti riferimenti per quello che facevo.

Per la controcultura italiana, quelli erano anche gli anni della grande ondata cyberpunk (la rivista Decoder era stata fondata a Milano già nel 1986), e dei rave parties illegali, che proprio a Roma individuarono la loro scena di riferimento. In che modo queste esperienze permearono anche il Luther Blissett Project?

Quanto al cyberpunk, c’è un contatto diretto: a Roma una mia ex personalità proveniva da Codici Immaginari, una delle prime riviste italiane sull’argomento. Inoltre sì, ero contiguo ai rave parties illegali: finita la mia trasmissione radiofonica (che andava in onda il sabato notte) puntualmente alle 4 del mattino andavo a ballare in qualche rave; ai ravers d’altronde mi univa la ricerca psicogeografica e la musica che ascoltavo, senza contare che le mie ex personalità più giovani diventeranno a loro volta organizzatori di rave illegali.

Ma senti, rave a parte: cosa differenziava il LBP romano da quello bolognese?

Innanzitutto il LBP arriva a Roma dapprima attraverso alcuni materiali preliminari: gli articoli della rivista Klinamen di Milano, i quaderni del Seminario Società di Palermo, gli opuscoli, i workshop e i volantini del collettivo Prato Rosso a Roma, i libri del Rizoma Autogestione Metropoli, i volantini dei Liberi Cittadini Transmaniaci di Bologna… Poi arrivò il mio primo libro, Guy Debord è morto davvero (Crash Edizioni, 1994), in cui invitavo chiunque a diventare me. Un altro mio articolo, Strategia del multiple name, venne pubblicato nel 1995 sulla rivista DeriveApprodi ed ebbe una larga diffusione.

La grande differenza tra il LBP bolognese e quello romano è che quest’ultimo si muoveva su una scala metropolitana e quindi era in grado di coinvolgere centinaia di persone nelle proprie azioni, mentre quello bolognese era più concentrato sul panico mediatico. Quindi a Roma, almeno in un primo momento, erano le azioni sul territorio l’attività principale. Alcune mie ex personalità del LBP romano diedero poi vita al collettivo di ufologia radicale Men in Red (MIR): un movimento fake, con una rivista fake, con azioni sul territorio fake… Fu una beffa durata diversi anni e anche parecchio complessa, che si conquistò le pagine di tutti i giornali e pure la prima pagina di Repubblica. Forse è stata una delle più grandi beffe mai realizzate in Italia tra gli anni ’80 e oggi [ho qualche dubbio che gli ex MIR intendano liquidare la loro esperienza come “fake”, ma di loro torneremo a parlare presto su queste pagine – forse, ndr].

Quali furono le azioni principali del LBP a Roma? O diciamo, quelle che più ti piace ricordare…

Senz’altro gli attacchi psichici. Dapprima c’era un sacco di gente che utilizzava il mio nome il sabato notte, e che si spostava in automobile in collegamento con la nostra trasmissione – Radio Blissett – con il ghetto blaster in spalla in modo da far interagire i passanti con le mie personalità in studio, e poi portando le persone alle feste, facendo pronto soccorso affettivo, portando i cornetti caldi alle persone sole… Chiamavo queste automobili “Luther-mobil” e durante la notte aumentavano spontaneamente fino a diventare più di una ventina. Le Luther-mobil portavano il caos in città, fottevano il pizzardone astratto ovvero la programmazione spettacolare della mobilità urbana (sì mi contraddico, “spettacolare”), il moto-controllo dei flussi metropolitani.

Poi, alla fine della puntata della trasmissione, tutte queste mie personalità si univano per sferrare un attacco psichico a un obiettivo – per esempio la SIAE o l’Anagrafe di Stato – mentre accorreva altra gente con il mio nome da tutte le parti della città. Il più epico fu l’attacco psichico all’ATAC, l’azienda dei trasporti romana, che divenne una festa su un autobus a fermate: ascoltando la radio si poteva sapere quando sarebbe passato l’autobus e accedervi.

Poi mi piace ricordare il disco del seppuku finale romano, in cui tutta la scena elettronica locale (e non solo) si mobilitò per me, con contributi che venivano da gente come Merzbow, 01.org, Klasse Kriminale, Jacques Camatte, Deadburger, il vandalo Piero Cannata, il neoista tENTATEVELY a cONVENIENCE, i Koanceled Konceit…

Prima parlavi di centri sociali come Forte Prenestino e Auro e Marco; ma le reazioni del resto dell’ala “antagonista”, quali furono? Dal libro si percepisce un certo sospetto, diciamo una qualche forma di sufficienza…

Nel peggiore dei casi mi consideravano un provocatore; nel migliore, come un compagno cazzone con cui comunque si poteva lavorare assieme per innovare linguaggi, teorie e prassi politiche.

Tuttavia usavo un linguaggio molto violento o pretendevo cose che allora apparivano assurde, come l’essere pagati per portare vestiti di marca eccetera. C’era anche chi si rifiutava di giocare, chi scriveva sui muri “No Blissett”, “Luther Blissett in miniera”… Devo dire però che almeno a me queste schermaglie risultavano divertenti.

È stato solo il tempo a darmi ragione: oggi tutto il movimento utilizza le mie strategie di lotta e di comunicazione, fondate fondamentalmente sulla presa per il culo del nemico. Poi certo, se lo fanno bene o male è un altro discorso.

Che rapporto ci fu con l’editore Castelvecchi, che all’epoca cercò di proporsi come canale “semi-istituzionale” di queste esperienze (e che pubblicò diversi libri riconducibili al Luther Blissett Project sia romano che bolognese)?

Castelvecchi cercava di partecipare a suo modo, inventando a sua volta multiple name del cazzo, ma non lo lasciavo mai avvicinare del tutto: tutte le mie ex personalità si coalizzavano contro di lui o diventavano direttamente lui, parlando al suo posto in BBS o chat. Lui recuperava tutto quello che si muoveva nell’underground, ma fu tenuto a distanza. Appena si avvicinava lo deludevo, come dimostra la lettera pubblicata sul libro in cui lo minaccio di attacchi di magia nera.

E invece i rapporti con l’ala underground “tossica” di riviste come Torazine?

Loro erano nichilisti e io comunista, puoi immaginare… Loro avevano scelto un’esistenza estrema e degradata di cui andavano fieri, e con questo stile di vita si volevano mettere alla testa di una generazione. Gli ho fatto la guerra perché io volevo la rivoluzione e loro le TAZ, anche se c’erano delle contiguità. Con il passare del tempo però, devo dire che si sono dimostrate delle persone davvero squisite, e alcuni di loro hanno provato che non si trattava solo di nichilismo e basta, ma di una nuova forma di vita che ancora non aveva trovato la propria soggettività. Erano dei precursori, come me.

E fuori dall’Italia? Che contatti c’erano, e tramite chi?

C’erano contatti con Richard Stallman e tutta l’area del software libero. Poi con l’area di Stewart Home, quella di Jacques Camatte, con quella dell’operaismo… Volendo avremmo potuto raggiungere anche gli ex situazionisti francesi ancora vivi, ma non ce ne fotteva un cazzo e non lo facemmo.

Nel recente libro Improper Names, Marco Deseriis pone il LBP all’interno di un continuum che risale indietro nel tempo fino a Ned Ludd, e che arriva fino ad Anonymous. Se sul primo si è già scritto ai tempi, del secondo che ne pensate? Cioè, che affinità ci sono tra il LBP e gli hacktivists venuti fuori da 4chan?

Senza dubbio l’anonimato. Devi anche ricordare che agli inizi degli anni ’90 tutti, dai sociologi agli antropologi, dagli psicologi agli economisti, facevano l’elogio delle nuove tecnologie di comunicazione, per un motivo o per l’altro.

In particolare i sociologi e gli antropologi facevano l’elogio dell’anonimato in rete e andavano raccontando che poter diventare chiunque in una chat fosse un processo di liberazione dalle identità. Gli psicologi sociali affermavano che l’anonimato in rete permetteva di esplorare parti di noi stessi che nemmeno avremmo potuto sospettare, che quindi in una chat si poteva diventare davvero noi stessi e questo avrebbe potuto alleviare alcune patologie. Gli economisti scrivevano di tele-città come fossero dietro la porta. Eccetera eccetera.

In questo contesto, non potevo che diventare una figura di riferimento: incarnavo tutte le banalità in voga sulle tecnologie di comunicazione, e con questo c’ho giocato non poco. Tuttavia non c’è voluto molto perché si rivelasse il lato oscuro di questo mondo, e già negli ultimi due anni del LBP parlavo di “società del controllo” – e non solo riferendomi alla teoria di Deleuze, ma proprio per esperienza diretta.

Come sostiene Marco Deseriis (che mi ha seguito fin dall’inizio, e con cui sono d’accordo) i tratti che accomunano il LBP e Anonymous sono l’anonimato attraverso uno “pseudonimo collettivo”, la “condividualità” (di cui dirò dopo) e l’“effimerità” di una cooperazione sociale che ha tuttavia conseguenze pratiche. Poi c’erano mie personalità che erano hacktivists (o lo sono diventate) ben prima di Anonymous, anche se non con la stessa virulenza.

Quanto credi che il LBP abbia influenzato i linguaggi della “generazione della rete”? E quanto alcune sue intuizioni sopravvivono, sono degenerate, o sono state tradite?

Penso molto. Oggi alcune categorie del mio linguaggio sono normalmente utilizzate da attivisti, artisti, hacktivists, ma anche festival come Transmediale ecc. Quasi tutte le mie intuizioni sono sopravvissute e continuano a essere sviluppate: prendi il concetto di “condividualità”, che Deseriis utilizza anche per spiegare Anonymous. È un concetto-chiave che inventai nel 1995 e che permette di superare concetti obsoleti come identità, comunità, individualità, collettività, reciprocità… Io ero un “condividuo” e chi diventava me sperimentava questo stato di coscienza che era la “condividualità”: dapprima si rinunciava alla propria individualità per diventare quello che Nietzsche chiamava “dividuum”, e poi una volta diventato un “dividuum” era possibile agganciarsi a me, per diventare un personaggio multi-dividuale.

Era anche – ed è – uno stato euforico. Non c’è comunità, individualità, collettività, non devi aderire a regole, non devi fare un patto: devi solo giocare a cambiare nome, sperimentare di essere un altro per ritrovarti con altri che fanno lo stesso e con lo stesso nome. È un gioco molto più leggero e lieve di quello che sembra spiegandolo. Oggi il concetto di condividualità è sviluppato soprattutto dal filosofo e critico d’arte Gerald Raunig, nel suo libro Dividuum. Machinic Capitalism and Molecular Revolution.

Quanto alla degenerazione e al tradimento di categorie che ho inventato, non è che me ne importi un granché. Lo stesso Raunig ad esempio non mi cita, il linguaggio si evolve, peggiora o migliora, pur laddove dovesse provenire da me non è di proprietà di nessuno. Come ho scritto nel libro sul LBP romano: non mi riguarda più, l’unica cosa che consiglio è che se recuperi un linguaggio da un repertorio come quello degli anni ’90, almeno che sia accompagnato da una forma-di-vita e non sia solo per velleità artistiche, per il business o per portare avanti una politica già vista e perdente. Come ho detto, sono stato sgamato e i linguaggi se vogliono essere incisivi vanno ulteriormente innovati.

Una domanda che non posso non porti: la “svolta” di Q da cui nacque Wu Ming, come fu vissuta dal resto del LBP? E in che modo la valuti ora?

Molti me sapevano che quattro mie personalità bolognesi stavano scrivendo il romanzo: ne hanno seguito la stesura, i cambiamenti, come doveva essere e quale fu il risultato finale. Non c’era alcun problema, anzi. Il problema nacque quando fu pubblicata la foto su Repubblica delle quattro mie personalità con nomi e cognomi: fine del gioco dell’anonimato. Ma si sa come sono i giornalisti, fiutano un indizio e ti fottono. E quindi la cosa non bastò a infastidirmi.

Quando invece gli autori di Q si presentarono al premio Strega, già c’era qualcosa che non andava. Quando poi Gianluca Nicoletti disse in Tv che queste mie personalità dovevano essere considerate i veri me, e quando cose di questo genere furono passate sotto silenzio nel LBP, è normale che si crearono dei malumori tra alcune altre mie personalità, tanto da generare dei me dissidenti che finirono per criticare il seppuku, invitando a tornare allo “spirito delle origini”.

Il LBP romano comunque terminò il piano quinquennale e partecipò al seppuku, sostenendo che il LBP tutto era fallito per questa scissione bolognese. A mio avviso i Wu Ming non possono più accampare alcun diritto su di me: sono un’altra cosa. E poi sono diventati troppo liberalcomunisti. Ad ogni modo dopo essere passati per me non ci sono regole da seguire: non c’è coerenza che tenga, non c’era prima quindi figurarsi dopo. Ognuno può fare quel che cazzo gli pare.

Per chiudere: pensi che in qualche modo il LBP sia stato un tentativo di “modernizzare” quello che una volta avremmo chiamato il pensiero radicale? E pensi ci sia riuscito?

Più che “modernizzare”, diciamo che ho piuttosto “traghettato” negli anni ’90 tutta una nuova generazione oltre l’operaismo – autori come Jacques Camatte, Fredy Perlman, Giorgio Cesarano – ricostruendo la cartografia degli scazzi anni ’70, decidendo che non me ne fotteva un cazzo e che avrei preso solo quello che mi piaceva. Gli anni ’80 avevano fatto tabula rasa, e questi saperi erano sopravvissuti solo in ambienti di nicchia “occulturali”. I miei non erano altro che aggiornamenti di Marx e di queste teorie alle nuove condizioni “hi tech” degli anni ’90 (almeno allora ci sembravano tali: invece come sappiamo era ancora tecnologia di merda, con l’unico vantaggio che il controllo era molto più difficile, perché le capacità informatiche dei controllati erano spessissimo superiori a quelle dei controllori).

L’approccio era molto scanzonato, combinavo i Grundrisse con la cultura pop e per giustificare questa combinazione potrei anche offrire delle spiegazioni molto serie, magari utilizzando la teoria del valore marxiana; ma la verità è che lo facevamo solo per divertimento e per cazzeggiare. Certo, il LBP era solo un gruppo all’interno di una moltitudine più vasta (che poteva utilizzare anche per un solo giorno il mio nome), e all’interno di quel gruppo c’erano delle divergenze e delle contraddizioni: per esempio sul ruolo delle donne all’interno di un progetto che veniva rappresentato da una figura maschile; e poi ci fu chi non gradì come finì il nostro “piano quinquennale”, col seppuku e tutto il resto.

Ad ogni modo ero convinto vi fosse una guerra psichica in corso e io questa guerra volevo vincerla – solo che volevo vincerla giocando. All’inizio ho spiazzato tutti e qualche battaglia l’ho vinta davvero; poi dopo il seppuku è diventata sempre più dura, il gioco è stato sgamato e coloro che hanno provato a raccogliere le mie strategie di lotta sono stati sbaragliati. Il pizzardone astratto si è rivelato una vera e propria carogna.